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FondoAlbertoMoravia.it

Dicono di Lui

Una sezione dedicata ai contributi di altri, che raccoglie testimonianze d’autore, ricordi, letture private, pensieri, sguardi sullo scrittore. Uno spazio dove raccontare non soltanto le sue opere e le sue riflessioni politiche/artistiche/letterarie, ma anche le vicende e i luoghi della sua vita, attraverso le parole e le immagini di studiosi, lettori, amici, esperti, e di chi ha semplicemente letto e amato i suoi romanzi, i racconti, gli articoli.

 

27 Ottobre 2014

Alberto Moravia, un ricordo di Sandra Petrignani

Parlando di Moravia vorrei partire da due cose molto precise. La prima è una frase che amava dire di sé: «Ho avuto una vita da artista, in qualche modo non da adulto. Ecco perché sono rimasto sempre, quasi mio malgrado, un po’ adolescente». L’altra è un’immagine piuttosto famosa, che lo fissa davanti a un ritratto fattogli da Renato Guttuso. Nella foto (scattata dal fotografo siciliano Roberto Granata) Alberto mima la posa del quadro: ha il mento appoggiato a una mano e l’altra chiusa a pugno, il pugno di un bambino capriccioso. Guttuso coglie molto bene lo sguardo dolce e un po’ infantile dello scrittore sotto le famose folte sopracciglia che gli davano un’aria minacciosa, ma si direbbe che il fuoco del quadro siano le mani, mani grandi di cui il proprietario sembra non saper cosa fare. Tornano, quelle mani nodose, in un altro ritratto che gli aveva fatto sempre Guttuso in età più giovane: qui lo scrittore è meno accigliato, i capelli sono ancora neri, il vestito è più formale – un completo verde con la cravatta laddove nell’altro si vede una giacca azzurra sportiva portata con disinvoltura sui jeans. In entrambi i quadri Moravia è seduto, ma non sembra contento di esserlo. In primo piano ci sono le mani, quelle mani enormi che si stringono l’una all’altra restando nervose. Infatti non danno l’impressione di essere quiete o abbandonate, ma solo sistemate provvisoriamente e pronte allo scatto, come le gambe accavallate, pure loro sul punto di scuotersi e alzarsi in piedi.

Un uomo incapace di stare fermo, un uomo dalle grandi mani timide, mani belle, insieme intellettuali e artigiane: ecco l’immagine di Moravia che più corrisponde alla mia visione di lui. Una persona timida e irruenta come certi cuccioli grandi e grossi che non sanno gestire la propria presenza nello spazio. Eppure Moravia degli spazi aveva una intuizione precisa, aveva la capacità di prenderne le misure e di descriverli con razionalità, tenendo a bada il sentimento che invece sempre gli serpeggiava nello sguardo curioso. Era uno sguardo il suo, insieme penetrante e arrendevole. Non so se per sovrapposizione letteraria, io vi ho sempre visto dentro quello di Agostino, uno dei suoi personaggi più felici: lo sguardo di un ragazzino innamorato e geloso della madre, intenso e disarmato. Una sensazione, la mia, credo sostenuta dalla vita sentimentale dello scrittore, che era facile a innamorarsi e “perdutamente”, per così dire, attratto dalla donna come alterità, enigma, e dalla donna immancabilmente “giocato”, costretto alla sottomissione (penso a Elsa Morante) o all’inseguimento (penso a Carmen Llera). Con Dacia Maraini furono scontri più ad armi pari, probabilmente  - e per sua stessa ammissione -  il rapporto più equilibrato e risolto della sua vita, il più sereno, se serenità è mai data in amore, e comunque destinato anch’esso a un finale di sconfitta per lui.

Immagino la madre del racconto Agostino come la prima incarnazione della donna di cui il bambino Alberto andava costruendo un’immagine mentale e che sarebbe diventata l’idea delle donne dello scrittore: divinità misteriose, creature ingannevoli e proibite, sfuggenti e necessariamente respingenti o traditrici. Per questo un uomo così capace di grandi amicizie con gli uomini - prima fra tutti la struggente, profonda amicizia che lo legò a Pasolini, e poi quella con Enzo Siciliano e con Guttuso, come con tanti altri più giovani – non poteva verso le donne provare amicizia. Solo passioni. Se si adora qualcosa o qualcuno lo si mette su un piedistallo e ci si colloca in una posizione d’inferiorità. E credo che Moravia adorasse le donne e tutto perdonava in nome di questa adorazione, questo trasporto infantile e filiale, questo bisogno di attrarre la loro attenzione con gesti d’insubordinazione adolescenziale.

Ricordo per esempio, una volta, che venne a vedere una mia commediola al teatro femminista La Maddalena, intorno al 1975. Si mise in prima fila in quella piccola platea dove il pubblico non era folto. Allungò la sua gamba matta e per tutto il tempo non fece che agitarla, così il mazzo di chiavi che doveva avere in tasca si agitava anch’esso e produceva un fastidio costante che tutti subimmo in rispettosa pazienza. Forse il suo udito già intaccato non coglieva il rumore, forse lo spettacolo lo annoiava a tal punto che non riusciva a stare fermo? Ero troppo sorpresa e grata dell’omaggio che mi faceva presidiando a una replica di quella modestissima pièce in un teatrino off e scomodissimo, per arrabbiarmi con lui o protestare. E quando alla fine venne in camerino a congratularsi con noi, c’era solo il suo sguardo mite e buono, le sue parole generose e gentili, a far piazza pulita di ciò che poteva essere interpretato come scortesia.

Mi piaceva molto la sua gentilezza e il suo costante esercizio di understatement. Ho scoperto solo molti anni dopo la sua morte, per esempio, che nel 1980 aveva scritto a Giulio Einaudi, senza dirmelo, una breve lettera raccomandando un mio testo poetico per la pubblicazione, perché sapeva che io l’avevo inviato alla casa editrice torinese. «Sandra ha,  secondo me, una vocazione sicura per la poesia, cioè per il rapporto esclusivo con se stessa» vi diceva fra l’altro. Quelle sue parole non ebbero esito - il testo non fu pubblicato e forse è stato meglio così - ma non importa, importa quanto rivelano sull’idea che aveva della personalità artistica e che ci si senta dentro la sua voce viva, un suo modo unico e lapidario di esprimersi.

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10 Ottobre 2014

Racconti Romani di Matteo Nucci

Il dolore che io provo più spesso è la nostalgia.

È un dolore sottile. Può diventare asfissiante, può indurre a una dolcezza slabbrata. Può martirizzare e avvolgere in spire insensate. E in generale è come un vortice che non finisce mai di risucchiarti. Soprattutto perché la nostalgia si prova ovunque. Nulla può confinarla fuori dalla nostra casa: è un dolore che sale dal centro del mondo che ogni cosa amplifica, ogni angolo reduplica in un gioco di specchi senza fine.

Quando siamo bambini ci insegnano a credere che la nostalgia si provi soltanto quando si è lontani da casa. Ci mancano i nostri genitori, le nostre piccole proprietà. Vogliamo tornare. Soffriamo. Piangiamo. È la nostalgia.

Che truffa. E dire che il primo romanzo della letteratura occidentale ha già sempre svelato questa truffa. Ma poiché da bambini vogliono lasciarci all’oscuro di tutto e vogliono farci credere che non serva altro che tornare a casa, quel romanzo lo hanno sventrato e ricomposto ad arte. Cresciamo pensando che le storie raccontate dall’Odissea siano versi che cantano in toni antichi quelle stesse vicende che abbiamo letto nei nostri libri d’infanzia. Circe, Polifemo, Scilla e Cariddi, le Sirene, e su tutto, il viaggio. Questo lungo, travagliatissimo, disperato viaggio. Tornare a casa, tornare a casa. L’importante è tornare a casa. Il nostro eroe, Odisseo, ce la farà, sfiderà i nemici, vincerà e avrà vinto anche la nostalgia. Basta tornare a casa.

Ma a casa non si torna mai. A casa non si torna mai. Lo sappiamo da sempre, in fondo, fin da piccoli. Nessuno infatti scampa a un’esperienza apparentemente inspiegabile. Molti di noi però riescono a dimenticarla. Capita tutto quando per qualche ragione siamo lontani e aspettiamo pieni di desiderio il ritorno. Poi passano i giorni e finalmente rientriamo in casa. Annusiamo l’odore familiare, corriamo in camera, cerchiamo sul tavolo, nei cassetti, nelle librerie. Dov’è tutto quello che aspettavamo tanto? Rovistiamo, gridiamo, litighiamo. Ma quel che ci mancava non c’è. E il peggio è che non sappiamo nemmeno cos’è. Scopriamo già allora, se abbiamo voglia di approfondire, che nulla avremmo potuto trovare al nostro ritorno e che tuttavia solo ora abbiamo la possibilità di capirlo, solo quando siamo tornati e ci accorgiamo che non torneremo mai, che non si torna mai. E che quello, nient’altro, è la nostalgia, il dolore del ritorno, il dolore di essere tornati dove non si può tornare più.

Quando arriva l’età giusta, poi, possiamo finalmente leggere per intero le storie di Odisseo e tutto ci diventa assolutamente chiaro. Scopriamo per esempio che le gesta ascoltate da bambini compongono in effetti solo poche delle decine e decine e centinaia di pagine. Ci accorgiamo con stupore che oltre la metà delle storie che cantano il nostro eroe si svolgono in patria, a Itaca, e oltre metà di quelle storie ci dicono che Odisseo non tornerà mai più. Perché solo tornando a casa, solo nel momento in cui è definitivamente tornato sul trono, può capire quel che gli era sempre sfuggito. Si torna perché non si può più tornare.

Quando provo questo sentimento feroce – acre e dolce, amarissimo e paradossalmente accogliente –  esco di casa e giro per la mia città. È l’unico modo per avere ogni volta la conferma decisiva. Non c’è niente che tu possa fare, Matteo, perché Roma non c’è più, Roma è scomparsa, la tua città è sepolta e non la ritroverai mai, e non potrai mai far nulla per ritrovarla. È quanto mi ripeto ansimante mentre arranco nella barbarie che si è sostituita alla città dei miei sogni, della mia fanciullezza perduta, del mio Eden mai vissuto. Però se c’è qualcosa che condividono tutti i nostalgici del tipo più testardo, come il mio, è che non ci si dà per vinti. Non si smette di cercare, di arrovellarsi in luoghi scomparsi, di ritornare negli stessi posti e di sognare che la nostra città possa essere ancora quella che non c’è mai stata, quella di un’epoca che in fondo non abbiamo neppure vissuto, un momento storico che con la storia non ha più nulla a che fare.

È allora che afferro un libro inesauribile e consunto, un piccolo tesoro infinito, lo apro e cerco una delle strade. Ma non è semplice. Esito. Lo richiudo. Sulla copertina della mia edizione c’è un dipinto di Cesarina Guarino. Sono palazzi romani anni Trenta, un cielo sbrindellato, un pino e forse un platano e la vernice giallo ocra delle mura e le finestre come occhi verdi. Dove sarà quel palazzo? Sarà davvero il quartiere Parioli in costruzione? Riapro il volume. Sfoglio le pagine che il tempo si è mangiucchiato ai bordi, lascio sfilare le orecchiette che segnalano i passi su cui tremai rabbrividii o scoppiai a ridere, osservo di sfuggita le sottolineature, i nomi, i personaggi, i luoghi. Poi la faccio finita, non cerco più nulla e lascio che il caso faccia la sua parte.

E così, certe volte me ne vado a bere qualcosa a un baracchino-bar sulla discesa che attraversa il parco del Celio verso via Labicana. Ho sempre immaginato qui quel ragazzo di piazza Campitelli che soffriva lo scirocco. Mi siedo a una delle seggiole antiche, di quelle con l’intelaiatura di ferro e le strisce di plastica tese: un capolavoro di comodità e di freschezza. Il ragazzo di piazza Campitelli soffriva lo scirocco, imprecava, litigava eppoi se ne tornava al suo bar. Una volta però esagera. Ne dice di tutti i colori. Minaccia un tipo coriaceo solo perché è certo che quello non potrà rispondergli, bloccato com’è dalla folla. Gode degli insulti che riesce a formulare eppoi se ne va fiero al lavoro, e in questo bar – che non è qui, sia chiaro, è dalle parti di piazza Fiume ma per me è sempre stato qui – il tipaccio che aveva insultato lo ritrova. Allora tutto succede in fretta. E che bella Roma. Che dolcezza i romani. Che bello quel Goffredo, l’altro cameriere, che grida allo “sciroccato”: “Gigi che hai fatto? Chi te l’ha fatto fare?” mentre lui scompare felice, salvato dai carabinieri che lo stanno arrestando.

Altre volte me ne vado a villa Glori. Amo villa Glori con i suoi viali che girano in salita e s’intrecciano e formano ponticelli e s’inerpicano sotto le montagnole dove combatterono i fratelli Cairoli. Amo questa villa soprattutto a giugno, quando gli aghi di pino bruciano e l’odore infesta il parco che a me piace chiamare con il nome che i romani non usano più: Parco della Rimembranza. Allora seguo il percorso di un altro cameriere, quello che lavorava con Rigamonti e che ogni volta presentava a Rigamonti le sue ragazze e da Rigamonti se le vedeva soffiare. Finché un giorno escogita il piano per il delitto perfetto. Invita il collega a un appuntamento sotto la villa, nei campi dell’Acqua Acetosa, a un passo dalla ferrovia per Viterbo, portandosi appresso una pistola. “Era una località veramente solitaria e la luna, sorgendo alle nostre spalle, illuminava tutta la pianura sotto di noi, annebbiata da una guazza bianca, sparsa di macchioni bruni e di mucchi di detriti, con il Tevere che vi serpeggiava, svolta dopo svolta, e pareva d’argento”. La maniera in cui si conclude la storia mi fa ogni volta sorridere di beatitudine. Passeggio verso i campi di rugby e gongolo per il ragazzo e per la sua sconfitta che si trasforma in vittoria e per la sua vittoria che si trasforma in sconfitta, come solo tra i romani può accadere.

A volte, invece di camerieri e baristi che a Roma sono quasi scomparsi ma qualcuno ancora ce n’è, decido di immaginare il percorso di un tassista. E poiché di tassinari e tassisti ormai non rimane che l’ombra, il mio viaggio è immaginario, del tutto immaginario. Me ne vado verso un ponte pedonale nuovissimo, il Ponte della Musica, e da lì contemplo i luoghi dove finì per trovarsi nella sua giornata troppo sfortunata un ragazzo che alla iella non voleva credere e che poi finì per cambiare idea, ma solo per spiegare la sua giornata nera, perché in effetti noi sappiamo che passata quella giornata tornerà a vivere come prima e alla iella non ci penserà più, proprio come sanno fare i romani. Lo seguo da piazzale Flaminio a Piazza Pollarola, dietro Campo dei Fiori, poi da lì alla stazione e finalmente lungo il Tevere fino a questa curiosissima via di Macchia Madama che oggi è una strada chiusa. Lo contemplo mentre scuote la testa, rientra in macchina e cerca di approfittarne. “Il sole già si arroventava, presi dalla saccoccia lo sfilatino della colazione e lo mangiai lentamente, in quel silenzio profondo, guardando, oltre il ciglio del burrone, al panorama di Roma. Poi mi venne sonno, in quel caldo ardente, mi addormentai e dormii forse un’ora”. Guardo oltre le tubature dello Stadio Olimpico, la macchia verde, e mi lascio portare dal sogno. Il ragazzo riprese a lavorare. Non ne poteva più ma la follia che si era dipanata dalla clinica pischiatrica di Macchia Madama lo aveva ormai cambiato. Altro che iella. San Pietro, Gianicolo, Aventino, Cavalieri di Malta, Circo Massimo, Colosseo. Adoro questo tassista giovane, che infine è talmente stanco da essere davvero pronto solo al domani che verrà.

Ma sono infiniti i posti in cui vado a cercare la Roma che non c’è mai stata, la casa che ho perso da sempre e il ritorno che non compirò mai più. Sono almeno sessantuno. Dal centro alle periferie, fino alle campagne di Castelbruciato, per esempio (quanto mi diverte Castelbruciato, che oggi è un quartiere in cui ancora immagino la contadinotta e il profumo dolciastro sparso sull’odore acre di stallatico mentre il ragazzo aspettava che in città si risolvessero i suoi problemi e potesse finalmente tornare, certo, proprio così: tornare…). E ancora più in là, fino al mare, fino a Ostia, le strade fra i pini, quella sensazione che tutto debba ancora aprirsi e che tutto si sia aperto un tempo in cui non esisteremo più. E così infine è chiaro che questa non è più Roma, non è affatto neppure Roma, ma è il luogo senza tempo e senza radici che solo la letteratura potrebbe creare. Allora, affondando nella disperazione delle estati che stanno svanendo, degli odori romani schiusi dall’umidità notturna che sentivo da ragazzino pensando che la vita sarebbe durata in eterno, torno a casa, mi siedo di fronte al tavolo e, con metodo, disciplina e tutta la lealtà che posso, mi metto a scrivere.

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